Anoressia

24.05.2015 22:38

I disturbi alimentari hanno  a che fare con la dieta o piuttosto sono un disturbo dell’amore o dell'ideale?  Colpiscono solo le donne? Si può controllare il proprio peso? Si può dominare il proprio corpo? Cosa dice la psicoanalisi? Risponde lo psicologo, psicoterapeuta con studio a Macerata, Dott. Andrea Iommi

La parola “anoressia”, che alla lettera significa mancanza di appetito è, paradossalmente, la meno adatta per definire quel patologico rifiuto del cibo che si instaura nella malattia  detta ANORESSIA MENTALE. Nell’anoressia mentale non vi è mancanza di appetito, non manca il desiderio del cibo, ma si stabilisce un RIFIUTO: rifiuto del cibo, determinazione a sopprimerne la necessità fisiologica e vitale. L’anoressica intraprende, portandola  a conseguenze serie e talvolta  estreme a livello psichico e fisico, una lotta contro il cibo, visto  e immaginarizzato come  qualcosa che può far soltanto ingrassare, depositandosi e  accumulandosi dentro il corpo . L’”oggetto” cibo – nella  PATOLOGIA anoressica – è una minaccia per l’IMMAGINE del corpo magro  perché  viene  immaginato, pensato, si può anche dire “delirato”come un impossibile  da trasformare   e da usare  per processi e funzioni vitali.  Ma quale  corpo, che tipo di CORPO occupa  e preoccupa la concezione  anoressica della propria fisicità? L’anoressica vagheggia e poi persegue  l’idea di un corpo che potrebbe/dovrebbe  funzionare senza cibo, restando efficiente, attivo e produttivo nonostante la privazione e a dispetto del deperimento organico : un corpo affrancato, emancipato dalla DIPENDENZA, dal nutrimento. Inconsciamente  poter fare a meno di nutrirsi  significa poter fare a meno di tutto, dell’ALTRO tout court : “allora non mangio più!” è un dispetto o un piccolo ricatto  a cui il bambino impara presto a ricorrere, non appena capisce- e lo capisce ancor prima di saperlo dire con le proprie parole -  che l’Altro ci tiene a lui e al fatto che lui mangi . Da questo primordiale momento in poi, per tutto l’arco della vita, l’apprezzamento del cibo offerto  sarà sempre segno di vita, di LEGAME SOCIALE, di rapporto civile, di piacere dell’incontro e della condivisione ospitale tra  gli esseri umani.Nell’anoressia il rifiuto del cibo si reitera, si rinsalda, si riconferma di fronte ad ogni scacco narcisistico: “posso farne a meno” è un enunciato che, con la sua rigida intransigenza, copre appena la fragilità della POSIZIONE SOGGETTIVA nell’anoressia, poiché proprio di questo l’anoressica non può fare a meno, cioè di pensarsi e rappresentarsi assolutamente libera da qualunque dipendenza indotta dall’essere un “essere umano” , abitato perciò da bisogni e desideri e alle prese con le proprie mancanze ed incognite. Un’anoressica, digiunando, “vuole” tenersi la fame, non può concedersi di perderla e questa diviene, paradossalmente, la sua radicale DIPENDENZA: l’ossessione di liberarsene ne fa un pensiero divorante, onnipresente, irrinunciabile.  Se l’angoscia è un sentimento che non inganna, la fame è una sensazione dalla quale non è facile distrarsi e può agire come un potente anestetico rispetto al dolore  psichico; la fame ottunde e quando un certo punto di privazione , di astensione dal cibo è toccato, la fame annulla la fame stessa e così succede – infine – di non avvertire davvero più alcun bisogno di nutrirsi , ma questo rischia purtroppo di essere un punto di non ritorno, di compromissione irreparabile  del corpo, nel reale. Prima di arrivare a ciò vi è un percorso di “ammalamento”, a lungo denegato, misconosciuto e mascherato, quasi sempre, da euforia, iperattività, entusiasmo, apparentemente e dichiaratamente indifferente alla stanchezza e allo sfinimento: “io? io sto benissimo !…non capisco perché gli altri siano preoccupati per me!”, è una frase ricorrente, fino alla monotonia, che caratterizza spesso anche i primi approcci psicoterapeutici, tanto più subìti come una forzatura, da parte dei genitori quanto più l’età di insorgenza dei sintomi dell’anoressia è precoce ( la pubertà, la prima adolescenza). Vi è, nella MALATTIA anoressica, una divergenza forte e drammatica tra ciò che il SOGGETTO sa (del proprio essere corporeo ) e ciò che vede del suo proprio CORPO: un’anoressica sa di essere magra, ma non si vede e non si sente magra.Il sapere è legato a dati reali e indiscutibili: l’ago della bilancia che scende, la taglia dei vestiti che continua a ridursi, i chilogrammi, i centimetri persi: sono numeri, perciò oggettivi e riconoscibili. Infatti l’anoressica li ammette, li riconosce, a volte con una mescolanza  di trionfo e di paura, eppure…in qualche modo  questi elementi, così misurabili, per lei non contano; di essere magra, magrissima, lo sa, però questo sapere non incide sulla decisione del digiuno, poiché persiste uno scarto incolmabile  tra ciò che l’anoressica può riconoscere sul piano SIMBOLICO e ciò che continua a disconoscere sul piano IMMAGINARIO. La tenace ostinazione di questo DINIEGO, concernente l’immagine, “Io non mi vedo così magra!”, offre una chiave di lettura all’esigenza  feroce quanto insensata,  nell’anoressia, di continuare, una volta dimagrita, a dimagrire ancora: poiché l’immagine allo specchio resta muta e opaca nel rinviare ciò a cui in effetti corrisponde – un corpo scheletrico -  e la percezione visiva è del tutto delegittimata, occorre un indizio propriocettivo, una pulsazione di fondo,  interna al corpo stesso, e la fame è in tal senso come una spia che resta accesa,  che serve per sentire, per sapere, che il dimagramento è ancora in atto e ancora  e  sempre potrà essere mantenuto: questa  è una certezza della quale un’anoressica non si sente mai abbastanza rassicurata e su cui cerca, a volte, anche a costo della propria vita, una disperata garanzia.

(testo a cura dell'istituto ICAB per la clinica dell'Anoressia e della Bulimina)